Colloquio con Samantha Torrisi

di Luca Ferracane

Samantha, mi sono immerso letteralmente nei tuoi lavori, cercando di oltrepassare quel velo vaporoso che contraddistingue molte delle tue opere. Sai, fin da quando ero bambino, le lenti spesso sporche dei miei occhiali sono state un filtro alternativo al mondo, vicino, per certi versi, alla realtà dei tuoi dipinti. Bisogna sforzarsi di mettere a fuoco le immagini proprio come l’obiettivo di una fotocamera.

L’associazione che fai con la vista è molto calzante. Questo tentativo di messa a fuoco in questo caso va oltre la percezione visiva meccanica e realistica, perché bisogna che la vista si faccia tutt’uno con il sentire interiore. Cerco di cogliere la sensazione, la suggestione che proviene dalle cose, dai luoghi, andando oltre la mera rappresentazione di paesaggi o figure che non sono più ciò che appaiono ma proiezione di quel che siamo (ricordi, emozioni, esperienze…). 

Sembra, in effetti, di avere di fronte degli scatti un po’ mossi di una vecchia polaroid, l’istantanea di un momento che è volato via. 

L’origine della mia pittura deriva senza dubbio dal mezzo fotografico, dal video ma principalmente dal cinema e da autori come Wenders. Tutte le mie opere dei primi anni Duemila prendono spunto da questo tipo di immaginario, in tempi in cui Internet non era ancora così ampiamente diffuso. Estrapolavo, con una ricerca quasi maniacale, fermo-immagini da videocassette per poi lavorarci cercando di ricreare anche tecnicamente quel tipo di movimento e di risultato visivo.

Eppure questa derivazione pittorica dalla fotografia e dal video non è soltanto una ricerca di riproduzione tecnica. Questo movimento congelato nei tuoi dipinti, spesso reso con questo nebbioso indefinito, dà la misura di una pittura inquieta, a tratti malinconica. Anche gli angoli che ritrai di una Sicilia slegata dall’immaginario collettivo da cartolina rispondono a questa particolarissima visione, scorci naturali o lande periferiche di città apparentemente vuote, spazi dove tutto sembra essere sospeso.

Luoghi e figure diventano paesaggi interiori, ombre e luci dell’interiorità di ogni uomo. In un paesaggio cancellato dalla nebbia ci si sente smarriti senza poter vedere dove si va. Non si sa cosa aspettarsi al di là di quella spessa coltre che al contempo può divenire una possibilità di conoscenza. Bisogna rischiare ad addentrarsi nel banco di nebbia. Come nel vuoto di uno spazio urbano dove tutto sembra essere immobile e sospeso ma in cui tutto potrebbe accadere da un momento all’altro. Un non-luogo fisico ma anche mentale che è nel paesaggio come nell’animo dell’uomo contemporaneo.

Verrebbe quasi voglia di soffiargli sopra ad alcuni dei tuoi dipinti, per far diradare questa coltre che ammanta tutto d’incertezza. Sarebbe però un’illusione. Alla fine probabilmente l’essenza dell’uomo sta proprio nel dubbio.

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