Colloquio con Rossana Taormina

di Luca Ferracane

Osservando le tue opere mi è balenato in mente il mito di Aracne, famosa per l’abilità nel tessere e che, per superbia, fu punita da Atena e mutata in ragno. Non so da dove sia scaturita questa prassi di utilizzare fili con cui ricamare carte, fotografie, mappe etc. e credo poco importi saperlo. Si intuisce però che tu sia votata a una dea in particolare, per rimanere in tema mitico, una alla quale anch’io offro libagioni. Mnemosine. T’immagino intenta a ripescare da un fiume vecchie pagine, di libri o giornali logorati dal tempo, piccoli oggetti dimenticati e perduti da qualcuno troppo distratto, figure impresse su carta e sconosciute con le quali creare corrispondenze d’amorosi sensi. Così percepisco quei filamenti, quasi fossero delle vene da cui diffondere nuova linfa, donando una vita, seppur trasfigurata, a quegli oggetti, relitti di altre esistenze. Anche le macchie di colore, i segni grafici, i disegni rarefatti su quelle reliquie cercano in qualche modo di rigenerare, con la loro presenza, il respiro silente di questa materia da te manipolata. Manipolare è una parola, il più delle volte, mal interpretata, in un’accezione esclusivamente spregiativa. Io, diversamente, la intendo nel senso più letterale e che mi sembra sia a te confacente ovvero “riempire con le mani”. In fondo, colmi quel vuoto, quell’oblio in cui l’incuria o la scomparsa di qualcuno ha relegato i supporti e i luoghi d’indagine del tuo lavoro, per restituirli, attraverso la metamorfosi dell’arte, a coloro i quali riescono a vedere e a sentire delle storie in interlocutori apparentemente inerti. 

Per un attimo, con le tue parole, ho vissuto la straniante esperienza di spiare me stessa intenta a lavorare. Il mito, come hai colto tu, nel suo senso etimologico di “narrazione”, mi appartiene, come mi appartiene il suo eterno presente e il negarsi ostinato a uno spazio preciso e misurabile. Ho l’esigenza di mantenere una distanza da ciò che rappresento: è necessario che l’opera restituisca una rielaborazione depurata dalle scorie del contingente, del dato autobiografico; per me è essenziale procedere dal particolare all’universale. Emotivamente è un processo impegnativo. Le foto dei bambini sono le più difficili da metabolizzare, molti di loro abitano per giorni il mio inconscio. Sento molto vicina alla mia sensibilità l’arte degli anni Sessanta-Settanta, in particolare il Nouveau Réalisme, l’arte contemporanea francese, Bourgeois, Boltanski e Messager. Fondamentali, tra gli altri, anche Christo, Manzoni, Sanfilippo, Boetti, Ketty La Rocca e Maria Lai. Parlavi di Mnemosyne e non posso non pensare a Warburg, alle implicazioni della sua ricerca e a quanto abbia orientato la mia. Quello con il filo è stato un incontro accidentale ma folgorante: per rimanere in tema di mito è stato il filo di Arianna che mi ha sottratto al labirinto. Ho avuto improvvisamente accesso a una mia identità più profonda che negli anni, a mia insaputa, ha stratificato emozioni, suggestioni, letture, passioni, rimozioni e traumi. Vivo l’arte come la più alta forma di libertà, irrinunciabile, in nome della quale ho cambiato il percorso della mia vita. Mi concedo di attingere a qualsiasi linguaggio, utilizzando strumenti convenzionali e non. La parte più vitale della mia pratica artistica è la ricerca dell’oggetto, la sorpresa e l’emozione di recuperare foto, mappe, carte, documenti, per immaginarne la storia, custodirli e osservarli per giorni finché non arriva la “visione” giusta. L’ossessione per il reperto e l’archivio, la nostalgia di luoghi e affetti perduti, la felice consapevolezza di esser qui ed ora, informano interamente la mia produzione. Nell’esecuzione, infine, sono ben lontana dalla “pedanteria” di Aracne. Prediligo le sbavature, le imperfezioni, la bellezza mutila, la vitalità dell’errore, l’incongruenza della rappresentazione, insomma il mio concetto di bellezza passa per strappi e cicatrici.

Chissà quanti sussurri legano assieme le composizioni che vai realizzando. Mi piace immaginare allora, soprattutto per quel che riguarda i lavori sulle fotografie – una efficacissima cifra stilistica – che tu riesca a unire, e perché no, a ricongiungere due individui che forse nella realtà non si sarebbero mai altrimenti incontrati.

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