Colloquio con Mario Nalli

di Luca Ferracane

Quando ero piccolo tra molte cose sulle quali mi fissavo c’erano le pubblicità dei detersivi. Per dimostrarne televisivamente l’efficacia, le immagini dello spot si concentravano a un certo punto sull’ingrandimento del tessuto macchiato, mostrando – e stuzzicando la mia curiosità – la trama del tessuto. I miei mi regalarono un piccolo microscopio che utilizzai parecchio, fino a quando non decisi di osservare da vicino piccoli insetti. Quella fu la fine della mia avventura voyeuristica nel micromondo.

Alcuni dei tuoi dipinti mi hanno rievocato quel periodo della mia infanzia, in cui scoprire le cose, anche quelle per noi adesso più banali, era una meraviglia. Questi olii mi ricordano dei fermo immagine su un universo infinitesimale, in cui la materia nella sua essenza, invisibile ai nostri semplici occhi, si mostra come realmente è. O forse dovrei dire come i nostri strumenti ce la presentano? Se la scienza, col suo progredire, forse non riuscirà mai a spiegare determinati fenomeni dell’esistenza, l’arte riesce e riuscirà sempre e comunque nel suo intento. Rendere visibile quel che spesso visibile non è. Tralasciando i microscopi e altri strumenti da laboratorio, la pittura in questo caso diviene lo strumento principe di un’indagine, un’osservazione di cui la mente è il principale terreno d’esplorazione. E allora non importa più se si parli di figurativo o di astratto, perché ciò che ne risulta è un’esperienza tangibile, visibile per entrambi, l’artista e il pubblico. Che sia analisi della materia più profonda, studio di luce, realizzazione di un contrasto, la tua pittura mi trascina in un’intima visione cerebrale. Chissà che qualcuno dei tuoi lavori non rappresenti forse le sinapsi di un cervello che si illuminano a seguito di qualcosa che ne stimola l’attivazione. Miracolo della percezione.

Hai fatto delle osservazioni in cui mi sono ritrovato parecchio. Sai, ultimamente sto cercando di ampliare la mia ricerca. Sto sperimentando anche io, come tanti altri pittori prima di me, l’indagine sull’idea di spazio e su quel che c’è al di là di questo, come anche del tempo. Mi affido a un processo pittorico molto vicino all’automatismo, mi lascio suggestionare da tutto ciò che mi capitae che mi circonda. Tutto quello che la mia percezione, come dici, riesce a cogliere, anche inconsciamente. Quando dipingo cerco di non guardare la forma, per quanto possa avere un’idea in testa, arrivando poi a esercitare in certi casi una pittura d’azione che, guidata dall’esperienza, arriva a configurarsi come “pittura processuale”, espressione che adottò il gallerista Sargentini negli anni Novanta. Certo, provo a ritagliare una mia autonomia artistica pur risentendo dei maestri del secondo Novecento ma tento di non riproporre le stesse tecniche: credo sia inutile ripercorrere quella strada.

Ti assicuro, poi, che dipingere è per me come salire su un ring, alla stessa stregua di una lotta, un combattimento amoroso e seducente, corporeo, costellato di aspettative, delusioni, intuizioni. Alle volte provo anche disprezzo per quel che vado dipingendo, ma non appena esce dalla tela qualcosa che mi attrae, che mi avvince, allora avverto una sorta di folgorazione. Dipingere è come avere un rapporto sessuale, fatto di più momenti, dal meno bello a quello più estatico. Bisogna penare, darsi da fare, come nel corteggiamento, per arrivare poi a carpire l’oggetto del desiderio e possederlo. In una lotta continua.

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